Il glifosato è un erbicida introdotto in agricoltura negli anni Settanta del secolo scorso dalla multinazionale Monsanto con il nome commerciale di Roundup. Ha avuto una grande diffusione perché alcune coltivazioni geneticamente modificate sono in grado di resistergli: distribuendo il glisofato sui campi si elimina ogni erbaccia o pianta tranne quella resistente che si desidera coltivare. Si aumenta così la resa per ettaro e si riduce l’impegno per l’agricoltore. Per la sua bassa tossicità rispetto agli erbicidi usati all’epoca è stato da subito molto usato anche in ambienti urbani per mantenere strade e ferrovie libere da erbacce infestanti. È attualmente l’erbicida più usato al mondo anche per la caratteristica di rimanere negli strati superficiali del terreno e di essere degradato e distrutto con relativa facilità dai batteri del suolo. Il brevetto della Monsanto è scaduto nel 2001 e da allora il glifosato è prodotto da un gran numero di aziende (fonte Airc).
Perché se ne parla?
Perché da diversi anni è oggetto di studi e controversie, da quando un gruppo di ricercatori francesi diretti da Gilles-Eric Séralini hanno segnalato una grave cancerogenicità: ricerca pubblicata nel 2012 sulla rivista “Food and Chemical Toxicology”, e che, in seguito a numerose critiche, è stata ritrattata dagli autori che l’hanno poi ripubblicata su una rivista minore (fonte Airc).
Di certo, tutto ciò ha sollevato l’interesse del mondo scientifico, suscitando diverse reazioni. Vediamo in primis quelle istituzionali. L’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per il cibo e l’agricoltura (FAO) hanno espresso parere più rassicurante. In particolare nel 2015 l’Efsa ha condotto una valutazione tecnica – affidata all’Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio – secondo la quale “è improbabile che il glifosato costituisca un pericolo di cancerogenicità per l’uomo”. E comunque, sebbene mantenga la classificazione corrente del glifosato come sostanza che causa gravi danni agli occhi e tossica per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata, conclude che le prove scientifiche disponibili non soddisfano i criteri per classificare il glifosato come cancerogeno, mutageno o tossico per la riproduzione (fonte Efsa). Mentre nel 2016 l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per il cibo e l’agricoltura (FAO) hanno condotto un’analisi congiunta giungendo anche loro alla conclusione che “è improbabile che il glifosato comporti un rischio di cancro per l’uomo come conseguenza dell’esposizione attraverso l’alimentazione”.
Una posizione più prudente, invece, è quella dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) di Lione che ha condotto uno studio sui possibili effetti per l’uomo e per gli animali: un’analisi che si è conclusa nel 2015, con la decisione di inserire il glifosato nella lista delle sostanze probabilmente cancerogene, allo stesso livello di “sostanze come il DDT, gli steroidi anabolizzanti, le emissioni da frittura in oli ad alta temperatura, le carni rosse, le bevande bevute molto calde e le emissioni prodotte dal fuoco dei camini domestici alimentati a legna o con biomasse”: sostanze per cui ci sono prove limitate di cancerogenicità nell’uomo, ma dimostrazioni più significative nei test con gli animali.
Per Airc, la risposta è “Forse”
Per l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, la risposta alla domanda se il glifosato è cancerogeno, quindi, è “FORSE”. In sostanza per Airc, “il caso del glifosato rappresenta, al momento attuale, un buon esempio di sospetta cancerogenicità non sufficientemente dimostrata, nei confronti della quale le istituzioni hanno deciso di mettere in atto il principio di precauzione: non vietarne del tutto l’uso (mossa che potrebbe avere effetti negativi sulla produzione agricola) ma istituire limiti e controlli nell’attesa di ulteriori studi”.
A parte l’effetto cancerogeno (si fa per dire…), sono molti altri i rischi per la salute umana correlati alla molecola, come testimonia un recente articolo apparso su Il fatto Quotidiano: “in particolare nella formulazione commerciale agisce anche come interferente endocrino e può influenzare l’apoptosi in cellule placentari umane. Secondo un altro recente lavoro il glifosato, rappresenta un fattore di rischio anche per la celiachia e numerose altre patologie attraverso modificazioni del microbioma intestinale (in particolare di lactobacilli e bifidobatteri). Si indurrebbero così infiammazione, malassorbimento, allergie alimentari, intolleranza al glutine, diminuita sintesi di vitamine e acido folico”.
Insomma, per ora è significativo che alcuni Paesi, tra cui l’Olanda e la Francia, abbiano adottato delle misure per la riduzione del rischio, e anche in Italia un decreto ne ha proibito l’uso nelle aree “frequentate dalla popolazione o da gruppi vulnerabili quali parchi, giardini, campi sportivi e zone ricreative, aree gioco per bimbi, cortili e aree verdi interne a complessi scolastici e strutture sanitarie”.